Le Donne e gli Uomini di domani avranno come orizzonte l’Universo, ma prima bisogna imparare a gestire il proprio rapporto con la tecnologia.

All’inizio del Novecento in Italia c’erano milioni di contadini e braccianti: erano più di metà della forza-lavoro complessiva, oggi sono meno del 5 %; c’erano centinaia di migliaia di lavandaie, appoggiate sugli inginocchiatoi lungo le rive dei fiumi, da cui attingevano l’acqua gelida per svolgere a mani nude il loro lavoro.

C’erano decine di migliaia di maniscalchi: sono scomparsi quasi del tutto tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso, man mano che i cavalli venivano sostituiti dalle automobili. C’erano centinaia di migliaia di tessitrici e filatrici: tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta sono state quasi tutte rimpiazzate dalle macchine automatiche.

Se allora ci avessero detto che tutti questi mestieri nel giro di un secolo sarebbero scomparsi, avremmo pensato che ci attendesse un nuovo secolo di disoccupazione totale.

In realtà il progresso tecnologico ha sempre fatto nascere nuovi lavori al posto dei vecchi: lavandaie, tessitori, lampionai, maniscalchi, cocchieri e tutti gli altri si sono sempre riconvertiti ad altre mansioni, per lo più meno faticose e pericolose.

Quando è comparso il robot neuro chirurgo qualcuno ha pensato che fosse un segno dell’imminente fine del lavoro umano. “Se le macchine riescono a fare meglio delle persone un lavoro che richiede tanta cultura, abilità e specializzazione, vuol dire che fra poco il lavoro sarà davvero un privilegio per pochissimi”.  Poi, però, si è scoperto che il robot-chirurgo ha consentito di realizzare anche in sedi periferiche, per un numero molto più vasto di pazienti, degli interventi sul cervello che fino a ieri erano possibili soltanto in uno o due centri di eccellenza mondiale, per un ristretto numero di privilegiati; in questo modo non solo il lavoro umano non si è ridotto, ma è aumentato, per ogni nuovo ospedale che ora può offrire questo servizio ha pur sempre bisogno di un chirurgo alla consolle capace di controllare l’operato dei robot, di infermieri, operatori sanitari e posti letto aggiuntivi. Il problema vero non è la “fine del lavoro” paventata come conseguenza del progresso tecnico da qualche futurologo un po’ miope; il problema vero è assistere e sostenere le persone nella transizione dai lavori vecchi ai lavori nuovi. E la prima cosa di cui le persone – i giovani prima di tutto – hanno bisogno, in questa transizione, è l’orientamento scolastico e professionale, una formazione mirata a ciò che il tessuto produttivo effettivamente chiede e di cui sia controllata l’efficacia, cioè il tasso di coerenza fra formazione impartita e sbocco occupazionale effettivo.

Ma prima di tutto è necessaria l’informazione sulle opportunità che il mercato del lavoro offre oggi e offrirà nel prossimo futuro.

L’intelligenza umana è destinata ad avere per ancora molto tempo la meglio sull’intelligenza artificiale e in tutti i servizi nei quali è indispensabile la capacità che alle macchine manca: l’empatia: cioè la capacità di provare lo stesso sentimento provato dalla persona che si ha di fronte; tutto ciò ci deve aiutare a comprendere come il progresso tecnologico consenta all’intelligenza umana e alla capacità empatica delle persone di porsi al servizio non più soltanto della ristretta cerchia della loro comunità locale, bensì all’umanità intera.

Gli spazi per il lavoro umano si moltiplicano e si estendono al di là delle nostre capacità d’immaginazione; ma per poterne approfittare occorre saperli individuare, porsi in grado di raggiungerli e sfruttarli in tutta l’enorme ampiezza delle opportunità che essi offrono. Il problema è che non tutti oggi sono in grado di raccogliere questa sfida.